lunedì 14 settembre 2015

Tributo a Steven Sasson

Secondo capitolo

Sempre più spesso si leggono sul web interventi critici di fotografia, nei quali la tesi espressa e sostenuta si risolve in un confronto, nelle forme di un giudizio di valore, tra la modalità analogica e quella digitale.
A favore, ovviamente, della prima.

Personalmente, non credo che tale impostazione dialettica abbia, per dirla alla Benjamin, consistenza filosofica. Siamo semmai in un territorio critico che spazia tra il pensiero utile all'evacuazione mattutina e il radical/lateral sinistro buono per le pagine del supplemento D di Repubblica (magari da pubblicare accanto ai consigli su come evacuare senza sforzo).

A sostegno della tesi che l'Analogico lo fa meglio, improbabili aggettivi e perifrasi contro il Digitale: freddo, plasticoso, senza poesia, senza qualità, impersonale, inconsistente.
E la convinzione che il residuo di materia che l'Analogico si trascina dietro, sia garanzia di qualità espressiva e formale.
Del suo essere, o divenire, opera d'arte.

E' cosa, tangibile, fallibile, fragile, umana, affettivamente unica, e quindi è espressione artistica.
Il processo inverso a quella reificazione dell'opera d'arte che proprio Benjamin nel '36 aveva demonizzato, a favore della riproducibilità della fotografia.
Trascorsi circa ottant'anni, la fotografia analogica, da espressione rivoluzionaria capace di scardinare i modi d'essere dell'opera d'arte, in virtù della sua riproducibilità, della perdita della sacralità della cosa, la fotografia analogica si diceva, reinventa sé stessa e si ammanta proprio di quell'aura che aveva sancito la decadenza di un'idea di arte, borghese, convenzionale.

Che questa sia un'epoca di grande confusione e  incertezza appare evidente, ma che ciò si risolva in una analfabetizzazione di massa, complice internet che diffonde ogni pensiero, in ogni istante, in ogni luogo, diventa quasi insopportabile.
Il Fare diffuso, è terapeutico, senza dubbio.

Il Pensare, no, non è terapeutico.